Padre montanaro e madre di origine veneta, Paola attualmente gestisce l’Albergo Ristorante Marola. Una famiglia “allargata” di albergatori-migranti, cittadini del mondo. Una vita movimentata con tante esperienze e culture diverse, nascite e morti in Belgio, in Congo, in Italia. Una famiglia in cui “andar per parenti” implica un mezzo giro d’Europa”, ma con un filo conduttore: il sentirsi montanari, anche se un po’ diversi.
Mia nonna materna emigrò con la famiglia nel 1925 in Belgio, a Zolder, nella provincia fiamminga del Limburgo. Iniziò a gestire una specie di albergo per i minatori: forniva loro vitto e alloggio. All’inizio era un servizio per poche persone poi, pian piano, divenne il ritrovo per la comunità italiana. A partire dalla gestione del bar e del ristorante, si ritrovò a lavare i panni e a fare anche la levatrice, accompagnando casa per casa il medico. Era diventata il punto di riferimento, il capo clan della comunità italiana.
Il nonno che in Italia faceva l’elettricista, in Belgio guidava i treni. Era molto impegnato nell’associazione dei combattenti italiani in Belgio di cui era presidente. Si conobbero, si sposarono ed ebbero tre figlie.
Arrivarono in Belgio anche due giovani fratelli, mio zio e mio padre, originari della Svolta di Toano. Il primo a partire fu mio zio, che lavorava per il comune di Toano e fu scelto per andare in Belgio per conto dello Stato italiano ad accogliere i minatori, compresi diversi compaesani. Quando arrivavano le squadre, lui le smistava nelle miniere e le aiutava a procurarsi l’alloggio. Poi lo raggiunse mio padre con il quale aprì due negozi di alimentari, sempre nella zona di Zolder.
Mio zio e mio padre conobbero e sposarono due delle tre sorelle. Una era ovviamente mia mamma. Le due famiglie hanno praticamente sempre vissuto e lavorato insieme.
Lo zio era un po’ quello con il pallino degli affari, un gran viaggiatore, non si stancava mai di pensare a nuovi progetti e nuove destinazioni. Nel ‘64 ebbe l’occasione di prendere in gestione un albergo in Africa, nella città di Kinshasa. Mio padre lo seguì con tutta la mia famiglia, andando a gestire un secondo albergo nel sud dello Zaire nella foresta al confine con l’Angola, dove ospitava i tecnici che lavoravano nelle raffinerie. Ovviamente ai miei nonni non restò altro che aggregarsi. Mio nonno morì proprio in Congo. Le cose per noi andavano bene, ma solo fino al 1966, quando iniziarono rivolte molto pericolose.
Siamo tornati in Italia, continuando a vagabondare tra Roma, Milano e la Liguria. Da 30 anni siamo qua. I miei nonostante “l’indole di viaggiatori” hanno sempre voluto mantenere il legame con l’Appennino, dove abitavano comunque tanti parenti, compresi i nonni paterni che hanno comprato casa a Toano. Quando sei lontano il rapporto con la terra d’origine tende ad indebolirsi, ancora di più una volta quando le comunicazioni e gli scambi avvenivano via lettera, ma il legame non si spezza mai.
Se penso a tutti gli anni in cui siamo stati in giro per il mondo… Alla fine dove siamo finiti a fare gli albergatori? A Marola. Niente da fare, i miei son voluti a tutti i costi tornare alle loro radici, a casa. Potevamo essere in qualsiasi parte del mondo e invece eccomi qua, a costruire la mia vita, la mia famiglia, il mio lavoro nella terra dei miei nonni. Infatti mio zio ha coltivato per anni il sogno di comprare un albergo a casa e ora me lo “ritrovo sulle spalle io”. Un albergo che compie 50 anni. Sono felice della scelta di tornare, così come della mia prima vita di migrante.
Mi porto dietro alcuni valori, ma soprattutto un modo di essere. Noi figli di italiani che siamo cresciuti all’estero siamo diversi. Arricchiti da un lato e impoveriti dall’altro.