Un americano innamorato dell’Italia. Racconta mentre gli occhi gli brillano.
In un certo senso questa storia ha inizio da un piatto di spaghetti. Mio padre era un soldato dell’esercito degli Stati Uniti, di origini italiane, che nella seconda guerra mondiale decise di arruolarsi per dimostrare il proprio attaccamento agli Stati Uniti. Dopo aver combattuto dall’agosto del 1942 per 5 lunghi mesi a Guadalcanal, venne trasferito a Melbourne. Da un elenco del telefono prese il primo nome italiano per chiedere un piatto di spaghetti. Lo ospitò la famiglia Santo Spirito dove lavorava Maria, la babysitter diciottenne del figlio. Quella sera lui e Maria andarono a ballare e nel luglio del ‘43 si sposarono. La giovane sposa aveva una Bronzoni di Ramiseto per mamma e un Leoncelli di Busana per papà. Suo padre era fuggito dalla repressione fascista andando a Melbourne, raggiunto poi dal resto della famiglia.
Terminata la guerra lui tornò negli Usa, mentre mia mamma lo raggiunse solo nel ’46, sbarcando a San Francisco da dove partì in treno per Boston. Mia madre amava raccontare che nei vagoni erano 500 donne, tutte mogli di soldati che andavano a ricongiungersi al marito.
Ho scoperto l’Italia nel 1971. Dopo la High School non volevo fare l’università: c’era il Vietnam, la leva era ancora obbligatoria e io non volevo arruolarmi. Decisi quindi di partire prima della chiamata, raggiungendo una amica di mia mamma che viveva a Segrate, vicino a Milano. La signora Grasselli e mia mamma erano state compagne in collegio, da allora si erano sempre tenute in contatto. Ricordo ancora i pacchi che mia mamma le inviava sempre con i vestiti di cui non avevamo più bisogno. Iniziai lavorare in una importante vetreria artistica.
Nel 1974, durante uno dei classici momenti di ritrovo estivo che passavo con i parenti, ebbi un grave incidente tra Busana e Ligonchio. Sono stato in ospedale per un bel po’ di tempo tra Castelnovo e Parma, ho avuto paura di morire e ciò mi ha provocato una crisi che posso definire “spirituale”. Sono tornato negli USA, dove mi sono sposato con una ragazza di origini italiane nel ‘75, ma ho sempre mantenuto un forte legame con l’Appennino.
Nell’88 sono riuscito a tornare vendendo lampadari in Italia; questa attività mi ha permesso di viaggiare tra USA e Italia. Durante una di queste trasferte, mio cugino Domenico mi ha fatto vedere la Chiesa di Nismozza che don Mario stava restaurando ed ho dato la disponibilità per rifare le vetrate. Poi mia mamma mi ha chiesto di preparare le vetrate della Chiesa di Ramiseto e Busana, luoghi di origine dei nonni. Ho proseguito con Cecciola, Nigone e Camporella.
Per me è importante questo lavoro, non lo faccio per soldi ma per un impegno personale, perché ho recuperato quella dimensione spirituale che l’incidente stradale aveva toccato. Grazie a mia moglie mi sono avvicinato a Gesù, lei mi ha fatto leggere la Bibbia in modo diverso. Ho capito che la vita eterna è un dono ed è già cominciata, basta credere in Gesù per capirla, non si può comprare con delle opere, ma va solo apprezzata. Ho accettato la mia vita vivendola come un ringraziamento. Per questo con le mie opere nelle Chiese dell’Appennino, voglio ringraziare Gesù. Lo voglio fare dove mi sento a casa e dove sono sempre stato accolto come uno di famiglia.