Marco Fedolfi nato a Castelnovo ne’ Monti, vissuto al Cigarello di Carpineti con i nonni originari di Castellaro di Vetto, ora vive tra Berlino e Francoforte. Alto, occhi sognanti e ciglia lunghissime. Timido e riservato comincia a raccontare. Arriva il cameriere, erano compagni di classe alle elementari. Dove vivi? Non sapevo ti fossi trasferito. E’ morto due mesi fa il padre di tizio. Ricordi? In 10 minuti si ritrova il bandolo della matassa. Qui, in Appennino, è così.
Mio nonno Oreste, insieme ad altri connazionali, è stato deportato nel campo di concentramento di Buchenwald, dove si narrava ci fosse una principessa dei Savoia come prigioniera politica. Lui, più fortunato degli altri, pelava patate in cucina tutto il giorno. Sono cresciuto sentendo parlare di questi tedeschi cattivi. Crescendo però ho incrociato persone, autori e luoghi di cultura e filosofia germanica e mi sono accorto che c’era molto altro.
Così nel 1989, a 17 anni, sono andato a lavorare in una gelateria in Baviera. Ero molto felice di questa opportunità: impegnato ogni giorno, da mattina fino a sera, con un solo pomeriggio libero a settimana che spendevo riposandomi. Riuscivo ad impadronirmi di una lingua diversa e di una indipendenza economica.
I miei genitori appoggiavano in pieno la mia scelta, li sentivo regolarmente ogni 10 gironi e tutto in Appennino procedeva regolarmente. Come ogni estate, con la frutta che maturava, gli ortaggi dell’orto da cogliere e i lavori nei campi.
Pensavo con nostalgia al lavoro del nonno, alla fatica fisica e alla determinazione di un uomo che anno dopo anno si prendeva cura dei terreni per garantire cibo alle bestie in inverno. Era un pensiero, quasi un senso di colpa molto profondo nei suoi confronti: io, in Germania ad arricchirmi di studi e conoscenze, mentre il nonno Oreste nei campi a fare i fieni sotto il sole cocente, a lavorare con la ferra lungo i pendii delle nostre montagne.
Dopo la maturità mi sono iscritto all’università di Innsbruck dove ho studiato filologia slava, russo, polacco e filologia romanza e francese. Negli anni ’90 gli italiani erano accolti con molti pregiudizi, immagini legate a mafia e corruzione, realtà molto lontana dalla mia cultura. Lì ho scoperto il valore del “come stai?”. Nella cultura russa, slava e tedesca quando una persona te lo chiede è perché è realmente interessata a te e al tuo stato. Non è una domanda retorica. Sono molto freddi di primo impatto, ma una volta aperta la scatola il legame che si crea è per sempre.
Con una borsa di studio mi sono trasferito a Kiel nel nord della Germania e, per terminare il percorso di studi e scrivere la tesi, – bocciata per l’alto contenuto politico – mi sono recato in Russia, dove ho lavorato per una ditta di industria automobilistica. Quasi per caso poi sono capitato a Berlino per lavorare in un albergo prima e per Lufthansa poi, per cui lavoro dal 2000.
Vengo spesso in Italia. Ho legami molto forti con la mia terra. Stare dai nonni era sempre bellissimo: tutt’ora i miei sogni sono ambientati nei campi e nei boschi di Castellaro di Vetto. Ogni anno la prima domenica di settembre ovunque io sia, e pure se solo, festeggio Santo Stefano, nei modi più disparati. Certo la vita a Berlino è molto diversa dai nostri paesini un po’ abbandonati, ma vedo la mia vita da pensionato di nuovo in Appennino.