Lucia, classe 1965, occhi verdi ed erre francese, vive a Felina insieme al marito. In una valigia di cartone estrae ricordi e foto ingiallite dal tempo. I genitori si incontrano quando sua madre decide di raggiungere il fratello, si innamorano all’istante e dopo sei mesi convolano a nozze. Sono nati 4 figli.
Nel 1956 ingegneri belgi giravano per l’Italia alla ricerca di manodopera, di giovani ragazzi forti e intraprendenti per andare a lavorare nelle miniere. Qui a Cinquecerri le famiglie vivevano sull’orlo della povertà. Come sempre accade, in tutte le famiglie numerose c’è sempre il figlio ribelle, quello che non si accontenta, quello che sogna: era mio papà, che invece di accettare un lavoro nei cantieri del Po decise di partire per il Belgio. Arrivò nella parte fiamminga nella città di Waterschei, sede della grande miniera di carbone.
Nello stesso periodo partì da Abano Terme (PD) il fratello di mia madre. Lui e mio padre si conobbero in miniera mentre lavorano al fronte, cioè 2000 metri sotto terra, un lavoro prettamente manuale in cui armati di piccone, pila frontale e una lampada ad olio, sdraiati nei cunicoli stretti passavano le giornate a scavare terra e carbone. C’era una grande comunità italiana che ogni sera si ritrovava dopo il lavoro nella sede dell’associazione famiglie italiane, AFI, tuttora esistente. Era una sorta di pub, ubicato nella zona baracche (container adibiti ad abitazione in cui gli operai dormivano) con tavoli da biliardo e la televisione. Ogni italiano portava ricordi di sapori, di musiche, di storie, di persone. E’ lì che i miei genitori si sono conosciuti.
Il lavoro in miniera molto pericoloso, senza misure di sicurezza. Ricordo ancora il suono della sirena, a cui seguiva una corsa forsennata verso l’ingresso e vicino alla gabbia ascensore. Le persone uscivano dalla terra completamente nere. Mio padre sembrava perennemente truccato: il carbone entrava negli occhi e non era possibile toglierlo.
Mamma e papà vivevano con la costante nostalgia dell’Italia. Le montagne, i campi, i boschi erano il loro sogno: in Belgio tutto è pianura. Le vacanze estive per noi figli erano a Cinquecerri e mio padre ci raggiungeva a settembre per la stagione di caccia. Decisero che Ivan, mio fratello maggiore, a sei anni avrebbe dovuto trasferirsi dai nonni in prospettiva di un ritorno di tutti i componenti. Purtroppo la tempistica che mio padre si era dato non fu rispettata e mia madre viveva in balia di sentimenti e situazioni contrastanti. Un figlio cresceva in Italia, gli altri tre in Belgio ed il papà era sempre al lavoro. Lei sognava Padova ma per amore avrebbe accettato di rientrare in Appennino. Purtroppo mio padre si ammalò e quando morì io avevo soltanto dieci anni. Mia madre riuscì a trovare un lavoro, ci manteneva e mandava qualche piccola somma di denaro in Italia per mio fratello.
Ogni occasione era buona per rientrare. Tutte le festività, i ponti, le vacanze le passavamo a Cinquecerri, ma ci volevano 24 ore di treno per arrivare a Reggio Emilia. In uno di questi viaggi, nell’estate del 1985 ho incontrato e conosciuto mio marito. Allora in Belgio lavoravo come impiegata, un lavoro ben pagato e riconosciuto. Ci siamo fidanzati ed abbiamo resistito tre anni a 1200 km di distanza, durante i quali una volta a settimana ci sentivamo spendendo un patrimonio in gettoni telefonici. Ci siamo sposati ed abbiamo deciso di vivere in Italia.
Ho ancora mia madre, mia sorella e mio fratello in Belgio. Siamo italiani, figli di italiani in Belgio, non abbiamo la nazionalità belga. Quando sono rientrata in Italia all’anagrafe mi hanno semplicemente cancellato nonostante io sia nata, cresciuta e abbia pagato le tasse in Belgio. Una riga sul mio nome.
In Belgio ero italiana, qui sono straniera.